"MONDO CANE" racconto di Romano Augusto Fiocchi
Disegno di Giuditta Fiocchi
Il caso era disperato. Fu chiamato addirittura il dottor Djembé. Una leggenda ospedaliera narrava che il dottor Djembé era stato tra quelli che avevano visitato Salvador Dalì quando fu sorpreso a strisciare giù a terra credendosi un lombrico. In quella circostanza il dottor Djembé propose una terapia storica che stupì tutti: – Portiamolo a pescare.
Il dottor Djembé arrivò di sera. Dopo aver pagato il tassista senza lasciargli un centesimo di mancia, entrò nel parco del Policlinico. Lo attraversò tutto. Camminò con passo autunnale sul tappeto di foglie morte dei viali. Passò le cliniche di Medicina Interna, di Ostetricia, di Cardiologia. Una nebbia silenziosa filtrava nelle narici. Aveva l’odore inquietante del muschio. La Psichiatria non era lontana. Con il suo passo fantasioso sembrava più un paziente che ne fosse uscito invece di un medico che vi dovesse entrare. La caposala lo fermò sulla porta con un’occhiataccia da gatta partoriente.
– Sono il dottor Djembé, – disse lui con il suo imperdibile accento portoghese.
Lo sguardo della caposala si ammansì:
– La faccio subito accomodare, dottore.
Il dottor Djembé fu scortato sino allo studio del professor Vitali. La caposala gli aprì la porta. Dentro non c’era nessuno. Dalla finestra filtrava l’odore del muschio. Andava a confondersi con l’odore di disinfettante. Il dottor Djembé fece scorrere lo sguardo sulla scaffalatura di libri che rivestiva tutta una parete. Si voltò e vide un individuo alto e magro, le spalle curve, i baffi folti e i capelli lunghi e brizzolati da vecchio dongiovanni. Era un altro dottor Djembé che lo guardava da uno specchio a figura intera. Si ricordò che il professor Vitali lo utilizzava per scendere nella cantina dell’anima: – Studiare la propria immagine, – gli aveva detto una volta, – aumenta la consapevolezza dell’identità personale del medico ed estremizza il distacco dal paziente.
All’improvviso entrò il professor Vitali, gli strinse la mano, lo ringraziò di essere venuto. Il professor Vitali era un uomo tozzo, sanguigno, i tratti grezzi di un contadino, le labbra carnose. Si sedettero uno di fronte all’altro, lui di là della scrivania. Il professor Vitali sfogliò una cartella clinica e gliela porse:
– Qui c’è tutto quello che sappiamo sul Paziente X, – disse. Allargò le braccia sconsolate. Si alzò, camminò sino alla finestra, si voltò: – Come ti ho scritto nella mia e-mail, vorrei che tu lo vedessi al più presto, sarebbe meglio subito, ora, ma senza insospettirlo.
– Mi fingerò un nuovo paziente, – disse il dottor Djembé con il suo imperdibile accento portoghese.
Il professor Vitali approvò con un sorriso. Chiamò la caposala e fece portare un paio di pantaloni di tela bianca e una giacca da camera. Fu così che il dottor Djembé fece il pazzo. Trovarsi dopo tanti anni dall’altra parte della barricata gli diede l’ineludibile sensazione di una vittoria.
Quando entrò in reparto, il Paziente X se ne stava seduto su una panca, lungo la parte del salone. Era un ometto buffo, il cranio pelato con uno strano e superstite ciuffo ribelle sopra la fronte. Appoggiava la nuca al muro, lo sguardo che attraversava il soffitto e cercava l’infinito.
– Io mi chiamo Leone. E tu?– disse il dottor Djembé.
– Sei un leone?
– Oh no, Leone di nome. Sai, come quel famoso scrittore russo.
– Cos’è uno scrittore?
– Be’, è uno che racconta delle storie e le fa circolare attraverso dei libri. Ne hai mai letti?
– Letti cosa?
– I libri.
– Non so cosa siano.
– Sai però chi sei. Voglio dire, sai come ti chiami.
– Il mio nome è Medoro.
– E il cognome?
– Noi cani non abbiamo cognome, soltanto il nome che ci dà il nostro padrone.
Il dottor Djembé tacque. Doveva fare in modo che Il Paziente X aprisse il suo mondo. Ma non ce ne fu bisogno.
– Prima non era così, – disse Il Paziente X.
– Prima quando?
Il Paziente X si voltò con aria sbalordita verso il dottor Djembé:
– Oh bella! – disse, – prima che prendesse piede la civiltà degli uomini.
Fu così che il Paziente X incominciò a raccontare al dottor Djembé la più strabiliante storia che avesse mai sentito. Lui restò in silenzio ad ascoltare.
– Ci fu un tempo in cui noi cani ci comportavamo da uomini e gli uomini da cani. Abbaiavamo guaivamo mugolavamo ringhiavamo e ci capivamo tutti alla perfezione: era il nostro linguaggio. Gli uomini parlavano invece una lingua individuale, ognuno la propria, e non avrebbero potuto comunicare se non per mezzo di interpreti poliglotti. Peccato che nessuno sapesse cosa fossero. La nostra civiltà era millenaria ed evoluta. La popolazione canina aveva costruito città intere: complessi di cucce e di cunicoli, orinatoi comuni e privati, annusatoi dove poter annusare la roba degli altri, disinfestatoi per cani igienisti che detestavano le pulci, infestatoi per cani masochisti che amavano grattarsi, ma anche opere di utilità sociale: istituti di ricovero per cani disadattati, dormitori per randagi, bordelli per cagnette in calore, ospizi per cani anziani. Per non dire delle vie di comunicazione, ossia delle piste e dei sentieri che collegavano le città e portavano attraverso tutte le terre allora conosciute. L’ordine pubblico era mantenuto da un cane podestà attorniato da una muta di cani poliziotto. Ma molte famiglie canine, per antica abitudine, adottavano un cucciolo di essere umano. Crescendo sarebbe servito come uomo da guardia per sorvegliare le cucce. L’uomo da guardia era un animale territoriale e andava tenuto alla catena perché avrebbe potuto azzannare chiunque si avvicinasse. Ma c’erano anche esseri umani da compagnia ed esseri umani da utilità, come uomini per cani ciechi, uomini da salvataggio per soccorrere cani che affogavano, uomini da caccia per procurare la selvaggina nelle campagne, uomini pastori per curare greggi di pecore e capre. Nonostante l’essere umano fosse considerato il miglior amico del cane, si erano verificati casi in cui alcuni cani erano stati aggrediti e morsi. Questo aveva reso obbligatorio l’uso di una gabbietta di cuoio che veniva montata sul viso dell’uomo. La chiamavamo viseruola. Altri accessori indispensabili per chi allevava un essere umano, fosse da compagnia o da utilità, erano i vestiti. Ve ne erano di varie fogge. L’importante era non dimenticarsi mai di coprire il proprio essere umano, specie quando c’era cattivo tempo. Gli esseri umani, al contrario del cani, non avevano peli, salvo sopra la testa e in altre circoscritte zone del corpo. Soffrivano il freddo in modo lancinante ed erano di salute piuttosto cagionevole, per quanto alcune razze, come quella nera, fossero le più resistenti agli sforzi fisici e ai disagi. Era un mondo tutto sommato meraviglioso dove noi cani eravamo padroni di ogni cosa e ogni essere vivente era al nostro servizio. Ma era con l’uomo che avevamo un rapporto speciale. Ad un tratto tutto questo cambiò, il mondo si capovolse e noi cani ci trovammo a fare i cani. Neppure i vecchi randagi conoscono il motivo di quello stravolgimento. C’è chi suppone un’improvvisa evoluzione cerebrale dell’uomo con conseguente presa di coscienza. C’è chi sostiene invece l’imbarbarimento della società canina, ormai giunta al culmine del suo sviluppo e destinata a scivolare giù in un inevitabile declino. Chi entrambe le cose insieme. Ci trovammo così alla mercé degli uomini. Ma su questo pianeta non c’è nulla che duri all’infinito. La civiltà degli uomini avrà il suo periodo di splendore che sfiorirà nel tempo del suo tramonto. E poi, chi lo sa, arriverà la civiltà degli insetti, oppure quella degli uccelli, oppure nulla, il vuoto dell’eternità che si mangerà le civiltà della Terra.
Il Paziente X andò avanti per un pezzo con profezie ed evocazioni nostalgiche. Venne mezzanotte ed erano ancora lì, il Paziente X che parlava e il dottor Djembé che ascoltava. Poi si fecero la una, le due, le tre. Il Paziente X non finiva più di raccontare al dottor Djembé il mondo che aveva dentro. E il dottor Djembé non finiva più di ascoltare con gli occhi sbarrati del medico che dimentica la sua professione.
La notte demolitrice li sorprese così. Il Paziente X si sdraiò sulla panca e si addormentò. Il dottor Djembé uscì dal reparto. In giro non c’era nessuno. Passò la porta della clinica in pantaloni di tela bianca e giacca da camera. La nebbia silenziosa filtrava nei polmoni.
Quando fu nel viale il dottor Djembé si fermò, appuntì le labbra e soffiò. Ne uscì un suono cupo e prolungato. Guardò allora su, verso la luna alta nel cielo. Sorrise e incominciò ad abbaiare.
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